L’altra sera è stato l’ennesimo girovagare per corsi lugubri e lagunari, sotto la solita cappa di freddo dicembrino e le tristi luminarie appese persino in località balneari ormai desuete, riecheggianti ancora qualche decadente fragore di riviera 1965, fantasmi persi nella notte. Accanto a me un vecchio amico mi racconta i suoi recenti amori e la perdita di un nonno amato. C’è stanchezza nell’aria, sospesa pesantemente nell’intercapedine dei nostri giacconi, la sento incarnarsi languidamente nei muscoli spossati da troppe poche ore di sonno e troppe birre negli ultimi cinque giorni e poi ancora sotto, l’umido incollato alle ossa. Voglio essere leggero, mi dice, ho bisogno di levità. Io lo capisco e questi anni logorati attorno a noi non fanno bene, penso. Che cosa ci resta, infine? La centrale continua a soffiare fuori fumo bianco sopra il mare, e più giù balena il riflesso vermiglio delle luci intermittenti che incoronano la ciminiera nella foschia. Niente più di questo, degli anni passati insieme, con i propri arti rotti e le estati al mare e i coiti raggiunti o accarezzati. Cosa ci resta al di là dei mal di testa la domenica mattina e poi anche il sabato mattina e il venerdì e il giovedì? L’affetto non è venuto meno, questo è indubbio, ma ad esso si è aggiunto il carico delle notti trascorse sempre sullo stesso lungomare, sugli stessi balconi, sulle stesse panchine, sui divani degli stessi amici. C’è un fiume di pagine dietro di noi, di banchi di scuola ed esami universitari, di ansie e paure e tutto l’entusiasmo della prima volta, di quando leggemmo di Raskolnikov e della vecchia ammazzata, e del naso del povero Kovalyov, assessore al collegio, e dei bagni solitari dell’ingegnere Stefano, al profumo di salsedine e Mediterraneo. Ci sono baci fuggiti, lavori odiati e ricchezze ormai rimpiante, la prima volta che ascoltammo Mike Kinsella e la mirabolante visione ancestrale, il giorno in cui scoprimmo cosa fosse un clitoride e la catastrofica esplosione che ne seguì. Non è nostalgia quella che opprime le membra, sia chiaro, non è amarcord, frutti di un’esistenza troppo timorata per essere nostra; noi non abbiamo nostalgia di nulla. È questa schiena ricurva, stanca di se stessa, che fissa sempre più l’ombelico e perde lentamente l’orizzonte. Davanti a noi si apre la città, con i suoi negozi chiusi e le coppie che litigano a bordo della strada, qualche ubriaco ancora a zonzo riscaldato di bottiglie e solitudine. C’è ancora qualche luce accesa tra l’oscurità delle case, timidi bagliori alle finestre, e dentro ragazzine quindicenni si bucano le orecchie e le labbra con aghi da cucito, diligentemente disinfettati e cauterizzati con l’accendino. Ci abbracciamo, poggiamo la mano di uno sulla spalla dell’altro e non abbiamo più molto da dire. Infine, mi è cresciuta la barba, molto più folta di quanto mi aspettassi, mentre tu continui ad indossare maglioni consunti con la stessa raffinatezza di sempre, ma hai cambiato occhiali e ci sentiamo padri di figli che non abbiamo. Cosa ci resta davanti, ci chiediamo. Nessuno lo sa, ovviamente, e per fortuna, che altrimenti non avremmo il coraggio di salutarci con voce stanca e pacche sulla schiena, e proseguire ognuno verso casa propria. Ma casa dove? Vedo solo buio oltre i fanali dell’auto e chissà dove finirò, dove finiremo. Succede poi che sulla strada di ritorno una lepre mi attraversi la strada zampettando freneticamente, sbucata d’improvviso dai pruni scuri che costeggiano l’asfalto e adagiatasi infine sull’erba a guardarmi incuriosita. Nel frattempo, ho accostato e mi trovo a fissarla a mia volta, con le braccia pigramente incrociate sul tettuccio dell’auto e il mento appoggiato sopra. Questa grande ruota che gira è tutto un gioco, ce ne accertiamo l’uno con l’altro, scambiamo anche un paio di battute sul più e sul meno, e poi sul meno e sul più; mi racconta del bosco, delle sue illusioni e delle sue certezze, infine mi chiede una noce di tabacco, quasi in colpa. Io il tabacco non lo compro da un po’, mi scuso, dice che fa niente. Abbasso lo sguardo sulle mie scarpe sporche di mota, sui lati consumati dal continuo incespicare. Nonostante tutto dentro questo abisso mi ci tuffo ad occhi aperti, vada come vada, vaffanculo, in fondo a tutto rimarranno gli sguardi sottaciuti e il non detto che riempie la notte e il calore delle pacche sulle spalle nella gelida bruma di fine anno e va bene così mi ripeto, va bene così.
No posts