C’è odore di morte nelle mie narici, tra i cunicoli e gli anfratti del mio corpo. Lo sento salire in gola, riempire le cavità, stringere le viscere. Sono gli occhi dell’agnello prima dell’ecatombe quelli che sovrastano le mie sinapsi, il sangue fumante del toro che bagna di rosso i miei denti. Un letto di foglie caduche mi fa da giaciglio e sotto ci sono sempre io in un mare di sudore. Ho paura e non riesco a dormire. Oggi l’aria della città è irrespirabile e in ogni vetrina vedo una persona diversa, questo non sono io e non mi riconosco. Le mie mani sono aliene e ho ribrezzo della mia stessa carne, non la voglio, non è mia. Ho bisogno di vita, di fiori e di vino, di amore consumato in fretta e furia, arsi dalla sete, e tu che vieni da me e mi dici che è tutto a posto. Ho bisogno di sentirmi a casa, al sicuro, con il cielo che riluce ceruleo fuori dalla finestra e i tordi sui rami del pero come da bambino. Ho bisogno di perdermi tra i cipressi in controluce, nei meandri del bosco, dentro i miei capelli, scomparire dietro una tenda d’edera. Di stare nudo all’aria aperta, fare i tuffi nel lago e sedere sulle onde dei pascoli. Vieni a salvarmi, ho bisogno di essere salvato. Ma non mi accorgo che la redenzione è già qui, tra le pieghe del pendolo, ho tutto quello di cui ho bisogno. È dentro la pietra sacrificale, inciso sul coltello del boia. È in questo sentimento di morte che si dispiegano i mille ettari di ciliegi in fiore, sotto il velo del sudario sta il fragore della cascata, immergerci le spalle è come calarsi nel buio del sottosuolo. In questo tremore c’è la forza di cento mandrie e la dolcezza del rincorrersi, nel mio soffocare l’ampio respiro di una scogliera. Dentro l’antrace del mio sangue c’è una foresta di frutti e di api, c’è il miele tra le fronde del fico e dentro il tremore delle notti insonni vi è il richiamo delle gole più profonde, tutta la pace di un eremo, l’antico muggito che rimbomba tra gli altipiani. Non sono il cieco, ma anzi colui che troppo vede, convinto che vedere sia conoscere, instupidito da me stesso, dall’ingombro del mio ego. Sono io che continuo a chiamarmi con un nome che non è il mio, che dice “io” e “mio” quando lo stagno ha la stessa profondità dell’abisso. Sono io che continuo ad essere e non riconoscere che anche non sono, che abito lo spazio tra una parola e l’altra in cui non vi è senso ma silenzio. Caparbio non desisto a delimitare il vento, a dividere il mare dai fiumi, a segnare punti in uno spazio infinito. Quanto sciocco sono nelle mie parole, quanto incauto nei miei giudizi. Vita e morte si compenetrano nelle mio ventre, ne impastano la carne, si identificano in me stesso. È sufficiente voltare l’angolo per vedere l’una sovrapporsi sull’altra a formare un’unica parola. Sono il figlio di un paradosso e il mio vivere è una contraddizione, è una bestemmia pronunciata da Dio, il coito di un sacerdote. Sotto i miei piedi c’è la mia testa e sopra la mia testa ci sono i miei piedi e nei miei occhi le tue mani e viceversa. Mi getterò nella danza macabra e con gli scheletri berrò vino ancora una volta. Dentro di me ci sono fiori di campo, un giorno sbocceranno e mille amanti vi si avvinghieranno sopra, le lepri vi scaveranno la tana e io non sarò più io ma me stesso.
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