Sveva si svegliò confusa, tanto che decise si sedersi sotto il grande noce a lasciare che i ragni le tessessero i pensieri e li disponessero in mille riquadri diversamente sagomati, ben stesi tra le fronde della ricca chioma. Godette un poco del sole che si rifletteva bianco sulle ragnatele e si tuffava repentino nei suoi occhi. Quella notte aveva tremato in letto, come spesso le accade, e il talamo giovanile era ancora un volta divenuto capezzale. Tra i suoi piedi aveva fatto capolino un antico compagno, un brivido non meglio specificato, la consapevolezza del non esistere, o l'essere del non essere, che ogni tanto le si appigliava alle caviglie e risaliva caparbio le gambe e poi tutta la colonna vertebrale, per esploderle infine in testa. Aveva bisogno di lavarsi la faccia nel piscio, Sveva, e passare in rassegna tutte le valli e le depressioni delle clavicole, ben infossate nell'esile sterno, e dare a tutto un nome come si trattasse di un pianeta appena scoperto. Insomma aveva bisogno di mettere un po' di ordine. Sentiva ancora quel brivido rimbombare nella cassa toracica, scavalcare le vene e intrufolarsi tra i tendini. Gli occhi stropicciati, piccoli come quelli d'un topo, erano rimasti stampati sul cuscino e le ci vollero alcuni minuti per mettere a fuoco l'imponente cattedrale di filamenti e reticolati che i ragni avevano edificato per lei. Davanti le si spiegava l'intero universo del suo cranio, un mondo popolato di formule matematiche, orge e antinomie. Iniziò ad interpretare quelle strane combinazioni di angoli e linee, come un antico augure tra le viscere d'un vitello, alla ricerca dell'origine di quel suo strano malessere, facendosi strada tra archetipi esoterici e imbarazzanti ricordi delle medie, tagliando a suon di machete i fantasmi di tutti i cazzi e le scopate consumate nel freddo di uno sgabuzzino. Si trovò infine perduta e spaesata in quel labirinto di misteri e si morse il labbro per la rabbia fino a farlo sanguinare, maledicendo l'alba in cui il ventre di sua madre la sputò in questa follia colorata senza capo né coda. Respirò cinque volte, aprendo bene i polmoni al mondo, come le avevano insegnato le betulle ogni volta che s'era trovata a boccheggiare e vomitare nei cessi di case sconosciute. Decise di lasciar perdere, si alzò e rientrò in casa. Svariate ore dopo, in una circostanza del tutto casuale, si ricordò d'essersi già sentita così una volta, fuori dal letto. Aveva 15 anni e pochi istanti prima aveva avuto un orgasmo con un ragazzino ricciolino e imberbe che aveva amato tanto, senza mai dirglielo. Il sedile reclinato della Clio in cui giaceva scomposta e mezza nuda divenne un abisso e per la prima volta fu inghiottita nella giostra del grande vuoto. Capì così il perché delle sue notti insonni. L'ansia del godere e la paura del non esserci più si affacciavano sulla stessa voragine, nera pesta di buio, ed era innamorata, innamorata di tutto, tanto da starne male. Fu lì che decise che avrebbe amato, fino a morirne, e sarebbe morta per l'aver troppo amato. Le sgorgò una lacrime dalle occhiaie, la prima dopo tanto tempo. Poi si tirò su e prese ad esaminare altre questioni, del tipo perché il sesso odora sempre come il suo culo.
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